venerdì 14 ottobre 2011

La vita è come una scatola di cioccolatini...

"Forrest Gump" di Robert Zemeckis (regista di film come "Ritorno al futuro", "Chi ha incastrato Roger Rabbit?", "Christmas Carol", solo per citarne alcuni) è un film uscito 17 anni fa, ma che conserva ancora tutta l'attualità e il fascino di una storia senza tempo, di una bella storia, su cui soffermarsi un attimo a riflettere e da cui trarre suggestioni.
La vicenda, ormai famosissima, narra di Forrest (mirabilmente interpretato da Tom Hanks), un ragazzo "diverso", un ragazzo un po' indietro, e dei personaggi che ruotano intorno alle sue vicissitudini. Gran parte del film è un lungo flash-back sulla sua vita, che nasce dal racconto del protagonista ai malcapitati sconosciuti che via via si susseguono sulla panchina della fermata di un autobus. Come un perfetto cantastorie Forrest ci fa appassionare alle sue avventure, ci getta addosso le gioie e i dolori, i risultati e le figuracce di una vita che noi osserviamo in immagini di cruda realtà, ma che egli ci narra sempre con lo stesso tono innocente ed ingenuo. Circa quarant'anni di storia americana ci passano davanti attraverso i suoi occhi e le sue esperienze; è lui stesso che, inaspettatamente, attraversa alcune tappe principali ed è presente, in un modo o nell'altro, in particolari eventi, conoscendo personaggi che sono stati protagonisti della storia. Così Forrest conosce un Elvis non ancora famoso, John Lennon, presidenti degli Stati Uniti e governatori, partecipa alla Guerra del Vietnam e addirittura intercetta involontariamente lo scandalo Water gate. Pur apparendoci portatore di un certo handicap mentale, ma, in un certo senso, forse proprio grazie ad esso, egli partecipa a tutti questi fatti e raggiunge traguardi che tutti gli altri non riescono a raggiungere o ai quali non provano nemmeno ad arrivare. Il suo impegno estremo, il suo senso del dovere, la passione e la costanza che mette in tutto ciò che fa, un puro ottimismo e un'ingenua fiducia negli altri, lo conducono a spezzare l'imbracatura alle gambe che gli sorregge la schiena da bambino e a diventare un campione di football, a divenire un soldato modello e un eroe di guerra, ad entrare nel commercio dei gamberi per una promessa fatta ad un amico ormai defunto e a ritrovarsi miliardario, a correre per due anni e mezzo attraverso gli Stati Uniti diventando per alcuni una sorta di messia... Ci sembra che venga in qualche modo smentita l'idea che per riuscire nella vita e guadagnare certi risultati si debba essere superiori alla media per capacità psico-fisiche o pronti a tutto, senza scrupoli, particolarmente furbi e approfittatori; Forrest realizza cose straordinarie senza malizia e quasi per caso, senza rendersi conto di ciò che ha fatto ed ha ottenuto. Siamo di fronte ad una sorta di eroe moderno, che può ricordare per certi versi il Principe Myskin, protagonista de L'idiota di Dostoevskij: un individuo assolutamente e genuinamente buono e puro, che pertanto, in un mondo che segue altre regole come il nostro, viene percepito dagli altri come un idiota. Viene da domandarsi a questo punto con quali canoni si possa etichettare la normalità e l'idiozia, se poi un "idiota" riesce ad arrivare dove coloro che lo reputano tale si perdono. Forse la miglior risposta è quella che dà il nostro eroe: "Stupido è chi lo stupido fa" e certo Forrest non si comporta mai davvero da stupido.
Le figure che risultano veramente negative nella storia si possono contare sulla punta delle dita e sono tutte marginali; chi certo non risulta uno "stinco di santo", si fa beffe e prova compassione per "l'idiota", si scontra inevitabilmente poi con la crudele realtà della vita, cade o si perde. Sembra che solo attraverso la vicinanza di Forrest, come se egli fosse una sorta di Cristo redentore, alcuni personaggi riescano a trovare infine una loro serenità, seppur nelle disgrazie in cui sono incappati. Mi riferisco per esempio a Jenny, la donna da sempre amata dal protagonista, che trova finalmente requie alla sua inquietudine esistenziale nel matrimonio con Forrest e nel figlio concepito con lui, benché sia destinata a morire di "una specie di virus" (si intuisce la sciagura dell'AIDS, probabilmente contratta nelle sue peripezie). Un altro esempio di questo tipo è il Tenente Dan, desideroso di morire sul campo di battaglia in Vietnam con i suoi uomini e condannato invece (in un certo senso dal protagonista stesso) ad essere uno storpio sulla sedia a rotelle, semi-alcolizzato, ma che alla fine "fa pace con Dio" ed è contento di aver avuto salva la vita.
Nell'atmosfera a tratti tragicomica del film, il finale ci riporta un po' al principio, in una sorta di struttura circolare: Forrest accompagna il figlio (che ha il suo stesso nome) a prendere lo stesso pulmino scolastico che prendeva lui da bambino e rimane seduto alla fermata, come nella scena iniziale, mentre vola via la piuma che aveva raccolto ai suoi piedi prima che il suo racconto cominciasse. Nella struggente colonna sonora dei titoli di coda si rimane con in bocca un sapore dolce-amaro: la consapevolezza di aver visto un bel film e di aver fatto propria una bella storia e la malinconia che Forrest, di cui si finisce per innamorarsi involontariamente, faccia parte di un mondo irreale, che non è mai davvero esistito. E' questa sorta di dolce malinconia, di sorridente mestizia che fa di "Forrest Gump" uno dei migliori film degli ultimi 20 anni.

Raissa Biancalani
membro di Essi Girano  

domenica 9 ottobre 2011

The Big Lebowski & Boogie Nights



Il cinema popolare dei fratelli Coen e di Paul Thomas Anderson

Sia Il grande Lebowski che Boogie Nights hanno riscontrato un’enorme successo di
pubblico. Il film dei Coen, in particolare, dopo un inizio deludente, è diventato negli anni
un vero e proprio cult movie di livello mondiale, spingendo addirittura numerosi fan a
creare un Lebowski Fest. Questa forte ammirazione è dovuta essenzialmente al
carattere particolare di entrambi i film, che mettono in scena personaggi assurdi o insoliti,
spesso comici, che riescono ad attrarre un moto di affetto e di partecipazione. Tuttavia, la
loro stranezza riesce a produrre un’empatia molto forte con lo spettatore. Questa
capacità intrinseca dei personaggi, già in parte esplicitata nei paragrafi precedenti, è
veicolata in maniera molto diversa dai due film.
Boogie Nights, parlando del mondo della pornografia, contempla un territorio tabù,
imbarazzante, di cui non è affatto facile sentirsi appartenenti. Da dove deriva dunque la
stima che il pubblico riserva al personaggio interpretato da Mark Wahlberg? Come è
possibile che una figura costruita sul passato del pornodivo John Holmes, possa attirare
tanta attenzione? Ebbene, la forza di Eddie Adams/Dirk Diggler, così come quella degli
altri protagonisti, consiste essenzialmente nella loro sincerità quasi naif. Nonostante la
lontananza del mondo del porno, Anderson riesce ad inserire lo spettatore all’interno di
un universo concluso, in cui vigono delle regole ben precise che, seppur lontane anni luce
da quelle della normale quotidianità di tutti, sono pur sempre regole, e appartengono a
quel preciso ambiente e a coloro che vi abitano. Questa caratteristica, tuttavia, invece che
produrre un distacco tra pubblico e film, riesce a sradicare lo spettatore e a trasportarlo
dentro i confini posti da Anderson. Alla fine di Boogie Nights (ma anche prima) ci
sembrerà naturale che Eddie abbisogni dell’aiuto di Horner per uscire dalla prostituzione
e dalla droga, e soffriremo per la sua condizione e per quella di Amber Waves, che si vede
rifiutare la custodia del figlio a causa dei suoi problemi con la cocaina. C’è dunque una
forte componente empatica che lega lo spettatore ai personaggi. Ciò avviene
essenzialmente perché Anderson costruisce dei personaggi reali, sinceri, che vivono le passioni umane. Sono sì attori porno, ma hanno dei sentimenti, e la loro ingenuità
(soprattutto quella del protagonista) è tanto forte che automaticamente siamo portati a
provare pena per loro, e a condannare una società che non li accetta e che,
ipocritamente, li critica e li scansa. Quella stessa società che siamo noi. In Anderson,
peraltro, c’è una forte componente di spettacolarizzazione che tenderebbe
automaticamente a rendere inverosimili i personaggi. Tuttavia, il centro stesso cui il film
ruota intorno (quello della creazione di un film hard), include necessariamente una
connotazione spettacolarizzante. Lo show, in realtà, è proprio la tematica fondamentale
del film: è ad esso che tendono i protagonisti, nessuno escluso, ed è lo show l’unico
universo che può dar loro forza, soldi, e la fama necessaria per vivere. In esso, i
personaggi di Boogie Nights rimangono invischiati come sulla tela di un ragno, si potrebbe
dire che è proprio lo show business, in realtà, la droga più potente, quella più pericolosa.
Lo spettatore è catapultato in questa dimensione, e lascia da parte il giudizio morale in
favore dei personaggi. Anche i personaggi di Boogie Nights, come quelli del Grande
Lebowski, sono costruiti su icone classiche del passato, ma la loro connotazione
sentimentale è più forte, più marcata, e l’ambiente in cui sono inseriti (La Vallé negli anni
’70), essendo il loro contesto naturale, stempera le differenze che saltano invece
all’occhio nel film dei Coen.

Già, poiché nel Grande Lebowski il processo di affezione ai personaggi è ben diverso.
Esso funziona per moto contrario a quello del film di Anderson. Il Drugo, così come
Walter, Maude, e molti altri personaggi, sono basati su personaggi-tipo del passato,
decontestualizzati e inseriti in un’epoca diversa. La loro forte capacità di non soffrire, non
piangere, in generale non provare sentimenti (il nichilismo, non ha caso, assume una
notevole rilevanza nel film, e molti critici non hanno sdegnato di utilizzare questa parola
parlando dell’opera dei Coen) deriva dal loro carattere quasi mitico, leggendario. I
personaggi del Grande Lebowski rispondono ad una logica propria delle icone del passato,
che vengono mitizzate e diventano immortali, una sorta di supereroi indistruttibili,
protagonisti da fumetto di fantascienza. Questo status extra-umano si accentua nel film
man mano che la trama avanza. Lo spettatore capisce di essere parte di un mondo
ipertrofico e di aver a che fare con personaggi non ordinari, sovrannaturali, e pertanto
muta il proprio sguardo da partecipante a mero osservatore. Tuttavia, i Coen giocano d’astuzia e corteggiano il pubblico con continui rimandi alla quotidianità: il Drugo, in
fondo, incarna ideali comuni a molte persone, ammicca ai giovani, e nella sua semplicità
(anche qui a tratti naif), risulta estremamente attraente. Egli è il surrogato di un hippie,
che passati gli anni ’70, rimane fedele ai suoi ideali pacifisti e anticonformisti, pur
perdendo lo spirito d’iniziativa e la forza con cui tali ideali venivano espressi in gioventù.
Per quanto disilluso, il personaggio del Drugo ha un suo equilibrio molto marcato, una
serie di valori saldi (seppur contestabili) e un’innata propensione per la libertà di
pensiero. Al contrario, il personaggio di Walter, rappresenta la frangia di americani reduci
dalla guerra in Vietnam, opposti agli hippie degli stessi anni e sostenitori di una politica
essenzialmente guerrafondaia, vittime dei media e della propaganda. L’equilibrio tra i due
personaggi, legati da un’unica e apparentemente futile passione per il bowling, è spesso
messo in gioco. Tuttavia, quei contrasti che negli anni ’70 sarebbero risultati fortissimi,
sono stemperati dal bowling e dall’ambientazione del film, che sposta l’azione negli anni
’90. In quest’ottica, Il grande Lebowski mette in luce la disillusione di due persone che
credono in ideali opposti, ma che nel loro comune scoramento, trovano motivo di
amicizia e complicità.

Nonostante ciò, nel forte scontro caratteriale tra i protagonisti, risiede anche la forza
della critica alla società degli U.S.A. da parte dei fratelli Coen. Il popolo americano,
sembrano volerci dire, è proprio questo: un coacervo di outsiders dagli ideali opposti, che
condividono gli stessi luoghi e le stesse storie. Tuttavia, è impossibile non ammettere che
i Coen provino una fortissima simpatia per il personaggio del Drugo. Il loser incarnato da
Jeff Bridges è il perfetto anti-eroe coeniano, forse il più estremo dei loro anti-eroi.
Ma in fondo è giusto parlare di anti-eroe? Le grandi produzioni (soprattutto quelle
hollywoodiane degli ultimi vent’anni) ci hanno obbligato a confrontarci con un concetto
di eroe che è incarnato nell’ideale del super-eroe, ovvero dell’uomo forte, attraente, che
distingue alla perfezione il Bene dal Male, e che punisce (violentemente) gli antagonisti. I
Coen sbeffeggiano questa concezione: anche loro creano un supereroe, che tuttavia è con buone probabilità «l’uomo più pigro di tutta la contea di Los Angeles», beve White
Russian di continuo, fuma spinelli e ascolta i Creedence. Senza dubbio, riguardo la critica
dei Coen alla mentalità hollywoodiana del cinema contemporaneo, Il grande Lebowski è
l’opera più radicale, poiché la più sarcastica. A differenza dei loro altri lungometraggi,
questo film non è soltanto popolare, è reazionario. Per valutare la differenza prendiamo
come esempio Fargo. La protagonista Marge Gunderson (Frances McDormand) è una
donna semplice, che ama la vita casalinga, non è bella, non è elegante, non ha particolare
savoir faire, e soprattutto è incinta di parecchi mesi. Tutte queste caratteristiche la
pongono agli antipodi del concetto di supereroe americano, ribaltandolo completamente,
annientando la sua virilità. La Marge di Fargo aspira alla tranquillità della vita familiare, al
figlio. Tuttavia, anche lei si piega per un istante al pensiero di una vecchia fiamma che
torna a trovarla, ma da cui fugge subito per tornare dal marito. Lo spessore dei
personaggi coeniani è dovuto essenzialmente a questo tipo di sfumature: l’uomo non è
perfetto, non è una macchina. Il mito americano è allora messo in gioco, ironizzato,
riportato sui binari della realtà.


Si Hollywood a imposé des mythes (héros viril, tueur forcené, vamp), la télévision a prisle relais en exaltant capitalisme, consommation, et en multipliant l’image barbare deshéros de cinéma. Les Coen les rendent responsables d’un conformisme des valeurs etd’une fuite hors des réalités. Ils analysent comment, dans les principes cardinauxquadrillant la société américaine, les gens perdent peu à peu l’aptitude à agir de faconconsciente et responsable, victimes d’une incapacité à différencier le réel d’une imagemythique et publicitaire. Or, à coté de ces drogués du mythe, apparaissent deuxfigures ordinaires de la vie: Marge, la femme flic de Fargo, et le Dude, l’homme dansThe Big Lebowski.

In questo senso prende corpo la popolarità del cinema dei Coen. Una popolarità vera,
sincera, mutuata dal reale. Lo sguardo al passato e l’anticonformismo lasciano filtrare «la
nostalgia di un tempo in cui i film popolari erano grandi film». L’uomo comune viene
intronizzato, innalzato, diviene vincitore. Il fallito, l’outsider, assurge al ruolo di
messaggero di una nuova rivoluzione: l’eroe non è più un supereroe, ma colui che
semplicemente affronta la realtà.

Per i Coen, distruggere un mito (quello mediatico, pubblicitario) diviene dunque un
atto di libertà, una sorta di manifesto artistico. Essi denunciano una politica commerciale
dell’arte, e propongono un’alternativa caricaturale che tuttavia ha ben altro scopo: sarà lo
spettatore, l’uomo ordinario, a divenire eroe, epicentro del cinema. E Jeffrey Lebowski,
The Dude, sarà il profeta di questo nuovo credo.

Alessio Poggioni
Tesi di Laurea 2009 "Il Grande Leobowski e Boogie Nights"

sabato 1 ottobre 2011

A Dangerous Method



Probabilmente non riuscirò a essere completamente obiettivo e distaccato nella valutazione del nuovo film di Cronenberg, complice la mia passione per la psicologia e tutto ciò che riguarda Carl Gustav Jung. Come mai proprio Jung, e non Freud, e non Adler o Fromm?  
I motivi sono molti: Per primo la sua immensa cultura e la sua determinazione a indagare a fondo nell'animo umano che lo spinse a viaggiare per il mondo per completare studi antropologici sulle più disparate culture. Viaggi che poi lo indussero alla formulazione del concetto di inconscio collettivo.
La stessa determinazione lo portò a studiare l'alchimia, avendo notato analogie strette con la psicologia moderna: il procedimento per ottenere la pietra filosofale rappresenterebbe per Jung l'itinerario psichico che conduce alla coscienza di sé ed alla liberazione dell'io dai conflitti interiori.
Mi ha sempre affascinato poi la sua apertura mentale verso quei fenomeni che non possono essere verificati scientificamente, in quanto non prevedibili o ripetibili, ma che per questo non dovrebbero essere declassati e bollati come eventi casuali o peggio ancora, dichiarati inesistenti. Questi fenomeni (di cui discuterà ampiamente ne La sincronicità, 1952) furono uno dei molti punti di rottura col tanto stimato maestro Sigmund Freud. Altri motivi scaturirono da alcuni disaccordi sull'analisi dei sogni e dalla piena contrarietà da parte di Jung al dogma freudiano che voleva fare della libido (intesa come pulsione sessuale) l'unica energia psichica a guidare l'essere umano nelle proprie azioni. Dogma che Freud voleva portare avanti a discapito della ricerca della verità.
Nel film di Cronenberg la disquisizione sugli interessi di Jung alla parapsicologia è trattato (per ovvi motivi) piuttosto superficialmente. Lo fa in una scena in particolare, nello studio di Freud, quando i due sentono un crepitio provenire dalla libreria e Jung ne predice un altro nel termine di un minuto. Il breve aneddoto raccontato da Cronenberg rispecchia molto (per quel che mi è concesso ricordare, persino nei dialoghi), quello che successe in realtà e che è contenuto nella biografia curata da Aniela Jaffè Ricordi, sogni, riflessioni.
Il materiale che deve gestire Cronenberg (o forse dovrei dire Christopher Hampton) è vasto e si trova costretto a sintetizzarlo in poche scene che in alcuni casi suggeriscono senza approfondire (come in questo caso) l'argomento toccato.  
L'intenzione del regista e dello sceneggiatore, immagino, non fosse quella di entrare nei particolari che portarono alla rottura tra i due maestri, ma mostrare il loro rapporto in continuo mutamento verso l'inevitabile divisione.
Questo per rendere comprensibile al pubblico, seppure in maniera sommaria, come la psicoanalisi prese forma dai rapporti tra le tre più brillanti menti vissute a cavallo tra l'ottocento e il novecento.
Già perchè la “terza mente” è una donna sensuale e malata: Sabina Spielrein, prima paziente di Carl Gustav Jung, poi amante, che dopo un lungo e doloroso processo di individuazione nel quale è accompagnata dallo stesso Jung, diventerà la celebre psichiatra che darà origine alle teorie sulla pulsione di morte e il conflitto tra Eros e Thanatos.
E' di questo rapporto (quello tra la Spielrein e Jung), oltre che di quello tra Jung e Freud, che il film tratta principalmente.


Jung testerà su di lei la “cura parlata” per tentare di guarire la sua forte nevrosi causata dai conflitti interiori tra la morale comune che disapprova (all'epoca più che adesso) le “deviazioni” sessuali, e le sue tendenze sadomaso (cit.:“io sono abbietta, merito di morire”).
E' grazie a un paziente vizioso e nevrotico mandato da Freud in cura da lui che Jung, dissuaso dai suoi argomenti, cede all'istinto e darà inizio alla storia clandestina con la Spielrein.
E' proprio questo rapporto così controverso e la rottura con Freud che causeranno a Jung dapprima una nevrosi e poi un vero e proprio esaurimento nervoso.
Che dire? Cronenberg ricostruisce l'atmosfera dell'epoca in maniera meticolosa. A guardare superficialmente non sembra neanche un film di Cronenberg, non ha quei toni cupi e disturbanti ai quali ormai ci ha abituato: lo stile è rigoroso, formale. La fotografia impeccabile.
Eppure Cronenberg c'è, lo si ritrova nelle tematiche del disagio psichico dal quale nessuno ha scampo, nemmeno Jung stesso, o lo stesso Freud: “Solo un medico ferito può curare un paziente".
Michael Fassbender interpreta egregiamente un Carl Gustav Jung, dapprima freddo, distaccato, poi combattuto, afflitto. Viggo Mortensen è bravo nei panni di un Sigmund Freud un po' manipolatore e nevrotico che cerca in ogni modo di imporre la sua teoria sulla libido e a prevalere sulle idee di Jung. Vincent Cassel amorale e idoneo nel ruolo di Otto Gross che sembra tagliato apposta per lui.
Keira Knightley, bravissima nel ruolo di Sabina Spielrein, anche se forse, nella prima parte del film tende troppo a enfatizzare la mimica del corpo in modo un po' teatrale.
Nel complesso un bel film, a tratti intenso, ma che probabilmente farà torcere il naso a chi si aspetta il David Cronemberg di Crash, Spider, del Pasto nudo o La mosca.

Certo sarebbe stata bella una sceneggiatura che avesse riguardato gli aspetti più oscuri e inquietanti della vita di Jung. Il suo rapporto con l'ignoto, tutti quegli eventi che lo portarono a sperimentare studi parapsicologici: dagli strani accadimenti avvenuti nella sua credenza, all'analisi dei fenomeni medianici della medium Helene Preiswerk, sua cugina (psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti, 1902). Dagli esperimenti sui fenomeni E.S.P. dei coniugi Rhine per la trattazione insieme al fisico Pauli della teoria della sincronicità, al ritiro spirituale alla torre costruita con le proprie mani dove sia lui che i suoi familiari avevano potuto notare strane presenze finchè non furono trovati nei dintorni resti umani e dato loro una degna sepoltura. Insomma ci sarebbe tanto di quel materiale da non dormire la notte. Chissà, magari, in un futuro non troppo lontano Essi Girano potrebbe attingerne per un thriller paranormale da fare invidia pure a Cronenberg! ;P


Claudio Fallani 



TRAILER





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Prendimi l'anima - film di Roberto Faenza. Con Emilia Fox, Iain Glen, Craig Ferguson, Caroline Ducey. - Drammatico, durata 100 min. - Italia 2003.

Carl Gustav Jung - Ricordi Sogni Riflessioni, raccolti e editi da Aniela Jaffè Collana Saggi Bur Prezzo: €11,90